Le “classi pollaio”: un problema sempre attuale?

È attualmente in corso un grande dibattito sulla ripartenza della scuola in presenza e in sicurezza: una priorità che va perseguita con la massima determinazione. Proprio in questa direzione va il decreto legge emanato da pochissimo, il 6 agosto.

Nei prossimi mesi sarà importante cogliere la sfida della riorganizzazione imposta dalla pandemia, per provare a risolvere in modo strutturale alcune grandi problematiche, prima fra tutte quella del sovraffollamento delle classi. La questione ha costituito un problema cruciale fin dai primi tentativi di ritorno in presenza: un numero così alto di studenti nelle aule italiane, com’è ovvio, impedisce di garantire un appropriato distanziamento tra i banchi, nonché, più in generale e da prima della pandemia, una didattica personalizzata e attenta ai bisogni di ciascuno.

Numerosi tentativi di riforma della scuola hanno provato a intervenire su questo fronte, in favore di una didattica più personalizzata e a piccolo gruppo che favorisse un apprendimento più significativo, ma questo resta ancora un obiettivo ambizioso. Un obiettivo il cui raggiungimento potrebbe forse essere agevolato da un uso intelligente e integrato dei dispositivi digitali, ma che appare ancora di difficile realizzazione proprio in considerazione di aule scolastiche che contano decine di studenti.

La relazione educativa, per potersi instaurare in modo autentico, ha bisogno che le persone e i collettivi (la scuola, la classe, il gruppo genitori) siano messi al centro dell’esperienza formativa. Questo significa dare valore a ogni singolo componente della comunità scolastica, ascoltarne le aspirazioni e i desideri, fornire gli strumenti per poterli raggiungere e garantire formazione. In un tempo di esplosione di nuove diseguaglianze – che richiede un piano straordinario per ridurre il più possibile i divari strutturali che caratterizzano la società – e di emergenza psicologica – che rende sempre più urgente la necessità di ascoltare maggiormente le persone e i loro bisogni – un piano per portare in modo permanente il numero di studenti per classe sotto quota 20 pare non più rimandabile.

Questa sfida pone certamente un tema di spazi, che non si risolverà se non smetteremo di relegare la formazione ai tradizionali luoghi del sapere: su questo punto, il Piano Scuola prova a dare una prima risposta, che, se portata avanti nel lungo periodo, potrebbe condurre all’individuazione in ogni territorio di numerose strutture, anche dismesse, da poter ripensare per ospitare le attività scolastiche. In questo quadro, anche il digitale dovrà essere ripensato e integrato: si consideri che persino i più prestigiosi atenei del mondo prevedono un passaggio strutturale a un’offerta formativa mista al 50% (fonte 2021 edX Impact Report).

La grande sfida delle fragilità

Dall’approvazione della decisiva legge 180 (cosiddetta Legge Basaglia) che abolì i manicomi nel 1978, i progressi nel campo della salute mentale e della cura psicologica e psichiatrica in Italia sono stati insufficienti (e spesso inefficienti).

Il ricorso spesso esclusivo e talvolta eccessivo alle cure farmacologiche, le strutture ospedaliere prive di servizi di sostegno psicoterapico, la scarsa considerazione della personalità del soggetto in fase di diagnosi e poi di terapia e il peculiare sistema delle comunità, perlopiù alienante anziché integrante, costituiscono le lacune dello “scheletro” statale che frenano le possibilità concrete di un cambiamento.

A ciò si aggiunge nel nostro Paese un contesto altrettanto complesso dato dalla mancanza di un dibattito pubblico aperto in merito, dall’onnipresente stigma sociale e dalla mancanza di informazione e assistenza, che spingono la società stessa a non sapere di volere (e necessitare) con urgenza un sistema migliore.

Siamo insomma ancora lontani da quei Paesi occidentali in cui negli ultimi anni si è registrata una svolta sui piani dell’accettazione dei disagi psichici, della promozione della salute mentale intesa come elemento indispensabile al benessere e del contrasto allo stigma nei confronti di chi manifesta fragilità psicologiche.

Certo, nel nostro Paese sono stati compiuti alcuni importanti passi avanti, come la crescente presenza della figura dello psicologo negli istituti scolastici. Tuttavia, per troppe persone l’assistenza psicologica è ancora un lusso, una pratica poco efficace rispetto a un farmaco o ancora una potenziale ragione di esclusione sociale. Sono le stesse persone che al disagio vedono aggiungersi una drammatica condizione di solitudine, difficilissima da intercettare e soprattutto da contrastare.

L’arrivo della pandemia, tra le altre cose, ha portato a galla molti di questi problemi, soprattutto per quanto riguarda la fragilità umana, così fortemente accentuata durante i tempi di crisi vissuti. Tuttavia, molto rimane un mistero, sia per l’opinione pubblica che per i gruppi dirigenti.

La nostra campagna dedicata al tema delle fragilità muove dalla fragilità psicologica per allargarsi a diverse tipologie di vulnerabilità. Intendiamo accendere i riflettori su diverse sfaccettature di una questione che ci riguarda tutti, dare voce a bisogni individuali e collettivi e fare proposte concrete per rendere l’Italia un Paese all’avanguardia su uno dei temi centrali del nostro tempo.

Tutto questo non è vero

A cura di Carla Filannino

  1. Quando tutto iniziava ad andar male 

A partire da febbraio, sul mio feed di Facebook ho iniziato a notare titoli di giornale che “strillavano” ancora più forte del solito. Notizie sul virus, certo, ma anche tanti commenti, previsioni, studi e analisi su tutti i cambiamenti già in corso che il virus ha fortemente accelerato: il lavoro agile, la telemedicina, la didattica a distanza… Ed eccoli i titoli che strillano che l’Italia, in tutta questa maratona di tecnologia e innovazione, è destinata ad arrivare sempre per ultima. “Non sappiamo fare lo smart working, siamo gli ultimi”. “Gli ospedali non hanno i letti, figuriamoci il wi-fi”. E così, tra lamentele e preoccupazioni, dovevamo capire come seguire i nostri studenti, come non abbandonare i nostri pazienti, come non paralizzare del tutto l’economia. 

In questa fotografia (sicuramente a bassa risoluzione) dell’Italia proiettata sul mio feed di Facebook, “strillavano” anche i commenti, che erano a tratti arrabbiati, a tratti rassegnati, quasi mai positivi. In questa rassegna in cui eravamo gli ultimi in tutto, si diceva“è ovvio che sia così”, perché la colpa è dei Sindaci, poi dei Presidenti di Regione e fin su sulla scala gerarchica, per poi però riscendere: la colpa è dei ragazzi che usano lo smartphone solo per fare le storie su Instagram o dei più grandi che quello smartphone non lo sanno proprio usare. Dai 13 pollici del laptop fino alla tastiera del telefono che entra in una mano: un perimetro in ogni caso molto comodo e ristretto, in cui entrano sicuramente tante domande e altrettante risposte (urlate e confuse, per l’appunto), ma pochissime soluzioni. 

  1. Bene, tutto questo non è vero: oltre quello schermo può esserci molto di più

Io sicuramente sono fan di tutte quelle applicazioni che possono non solo semplificarci la vita, ma renderci più vicini e offrirci più opportunità. Anzi, vi dirò di più: anche favorire la sostenibilità economica e ambientale. 

Jackpot

Tutto questo passa da quella parola di cui tanto sentiamo parlare: digitalizzazione. Molte volte questa parola ha lasciato intendere che la nostra intera esistenza possa essere facilmente riposta dentro un qualsiasi device, così che dal reale diventi virtuale. 

Di nuovo: tutto questo non è vero. 

Digitalizzare significa snellire i processi, renderli maggiormente accessibili, coinvolgere attivamente l’utente che sceglie di ricorrere a un sito web piuttosto che al telefono per dialogare con un call center. È un processo che deve necessariamente avere nuovi modelli e nuove categorie di riferimento. L’online (che in un domani non troppo lontano da oggi sarà on-life) non può essere la copia dell’offline, anzi la brutta copia. 

Soprattutto perché quando un nuovo mezzo di informazione arriva, ridefinisce il precedente: non lo elimina. 

  1. Parliamo di sanità 

Per molti, digitalizzare la propria struttura sanitaria significa mettere tutti i documenti e le informazioni (magari in lunghissimi PDF, con timbri e firme) su un sito web. Ancora ripeto: tutto questo non è vero. 

Il concetto di telemedicina nelle linee guida del Ministero (che sono qui http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2129_allegato.pdf) è descritto così: 

“Per Telemedicina si intende una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria, tramite il ricorso a tecnologie innovative, in particolare alle Information and Communication Technologies (ICT), in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente (o due professionisti) non si trovano nella stessa località.” 

Il primo enunciato è molto chiaro: utilizzare le nuove tecnologie. 

Ma come? Lo spiega qualche riga più in basso: “Si precisa che l’utilizzo di strumenti di Information and Communication Technology per il trattamento di informazioni sanitarie o la condivisione online di dati e/o informazioni sanitarie non costituiscono di per sé servizi di Telemedicina.” 

Cosa significa? Molto semplicemente, inviare un messaggio su WhatsApp al proprio medico, non è telemedicina. Nemmeno l’email è telemedicina. Ah, neanche Skype o Zoom. 

Perché?  Le linee guida del ministero precisano: “La Telemedicina comporta la trasmissione sicura di informazioni e dati di carattere medico nella forma di testi, suoni, immagini o altre forme necessarie per la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il successivo controllo dei pazienti.”

La trasmissione sicura di informazioni (com’è evidente, i dati sanitari sono tra i più sensibili da condividere e conservare) passa per un regolamento europeo che si chiama GDPR (General Data Protection Regulation). Due anni fa, abbiamo ricevuto milioni di email che chiedevano di aggiornare il nostro consenso alle nuove privacy policy: valeva per Netflix come per la newsletter del quotidiano locale. 

Cosa dice questo regolamento per quanto riguarda la sanità? Quando il medico deve chiederci il consenso? Per finalità di cura, non è necessario richiedere l’autorizzazione al trattamento dei dati, poiché il medico deve rispettare il segreto professionale. Tuttavia, il medico è tenuto a comunicare in che modo i dati saranno utilizzati in qualunque caso.  Invece, sarà necessario richiedere il consenso per l’utilizzo di app mediche che raccolgono dati dei pazienti, come ad esempio gli elettrocardiografi per smartphone o le applicazioni che salvano dati sulle visite optometriche. L’utilizzo di app di telemedicina invece non richiede di ricevere il consenso da parte del paziente. Se il medico ci invita a usare WhatsApp o Facebook, deve chiederci il consenso. Il garante della privacy sottolinea infatti che il medico deve richiedere il consenso anche per app che, indipendentemente dalla propria finalità (app di messaggistica, app che permettono la scansione e il salvataggio di documenti sul telefono etc.), non tutelano i dati dell’interessato, perché è possibile ottenere l’accesso anche da soggetti diversi dai professionisti sanitari. Un esempio concreto e quotidiano è proprio WhatsApp. Infatti, è vero che i dati sono criptati in transito, ma non significa che restino privati: possono essere, ad esempio, facilmente reperibili su un telefono smarrito o rubato e soprattutto WhatsApp non richiede una password per sbloccare l’accesso. 

Cos’altro ci dice il Ministero?I servizi di Telemedicina vanno assimilati a qualunque servizio sanitario diagnostico/terapeutico. Tuttavia la prestazione in Telemedicina non sostituisce la prestazione sanitaria tradizionale nel rapporto personale medico-paziente, ma la integra per potenzialmente migliorare efficacia, efficienza e appropriatezza.” 

Come detto prima, un nuovo medium ridefinisce il precedente, non lo elimina. La telemedicina entra nell’ecosistema sanitario e agevola i rapporti tra medici e pazienti, promuove la medicina diffusa ma non sostituisce i precedenti media: apparecchi di diagnostica, ricette cartacee, appuntamenti col medico etc. In una situazione di emergenza però, la telemedicina diventa fondamentale. Con una giusta visione e una adeguata attenzione, la telemedicina potrebbe contribuire a riorganizzare e rafforzare le strutture sanitarie, ma purtroppo questo non si è ancora realizzato. 

E infine: “La Telemedicina deve altresì ottemperare a tutti i diritti e obblighi propri di qualsiasi atto sanitario.”

Etica e deontologia non nascono con la telemedicina, sono proprie della professione e per questo, ora che la medicina entra nel digitale, deve necessariamente tutelare la salute, ma anche i nostri dati e la nostra privacy. L’emergenza in questo caso non giustifica la fretta: occorre attenzione nella progettualità per tutelare i pazienti nel lungo periodo. 

A chi possiamo chiedere aiuto? 

In Italia, a marzo è partita una gara di solidarietà e molte aziende, tra cui tante start-up di sanità digitale, hanno offerto i propri servizi gratuitamente. Non siamo gli ultimi in innovazione. Tecnologia e creatività negli anni hanno dovuto lottare contro la burocrazia, la scarsa conoscenza, la mancanza di investimenti, ma nonostante tutto, sono nati grandi progetti che devono ora continuare a crescere. 

E questo accadrà solo se iniziamo a capire che oltre lo schermo ci sono (e serviranno sempre di più) investimenti, fiducia e tanto tanto tanto coraggio. 

Smart working: una grande occasione per il Paese

A cura di Alessandro Scavo

Negli ultimi tempi, lo smart working è divenuto l’epicentro del dibattito lavorativo.

La pandemia ha avuto quantomeno l’effetto positivo di portare a una decisiva presa di coscienza che lo smart esiste e può funzionare su larga scala, comportando grandi benefici per l’ambiente, la qualità della vita delle persone, la stabilità affettiva ed emotiva.

Soprattutto, questa può essere una grande occasione per il Paese per aumentare la propria produttività e dare una svolta alla questione meridionale.

1. Quali caratteristiche deve avere lo smart working per essere efficace?

Prima di parlare dei benefici che può portare lo smart working, è opportuno darne una definizione. Iniziamo dicendo che in Italia, ad oggi, a causa di una normativa colpevolmente lacunosa, si parla prevalentemente di telelavoro e non di vero e proprio SMW.

Infatti, se nel primo rimangono alcuni parametri “fissi”, come nel lavoro in sede (orari rigidi e prestabiliti, prevalenza nella valutazione delle ore effettuate sul risultato etc.) nel secondo, invece, questi dovrebbero venir meno, collegando la prestazione a una serie di obiettivi e risultati ben definiti.

Ovviamente, lo stesso smart può essere implementato in modo efficace solo nei settori che, per il livello di dematerializzazione e/o tecnologico, consentono effettivamente al lavoratore di eseguire correttamente la propria prestazione ovunque lui voglia. Quindi, chiaramente, nel terziario potrebbe trovare terreno fertilissimo.

Lo smart, inoltre, dovrebbe avere una caratteristica fondamentale e imprescindibile, spesso disattesa dal 90% delle aziende italiane: in sede si dovrebbe andare quando si vuole. Molte imprese, infatti, stanno adottando delle forme ibride: smart working per pochi giorni alla settimana, il resto in sede. Questa modalità non consente al lavoratore di organizzarsi liberamente, scaricando per di più sul lavoratore stesso l’aumento dei costi e dell’instabilità emotiva che una vita in questo “limbo” produce.

Perché lo smart abbia benefici effettivi sulla società, quali, ad esempio, miglioramento complessivo della qualità della vita, rientro al sud, scelta del luogo di residenza in base al proprio stipendio, diminuzione del traffico, maggiore stabilità emotiva della popolazione, il lavoro a distanza deve essere consentito per il maggior numero di giorni consecutivi possibile.

La presenza in sede, che comunque deve essere prevista, deve essere organizzata a seconda delle esigenze del lavoratore. Chiedere ai lavoratori una presenza, ad esempio, per 2 giorni alla settimana significa comunque costringerli a vivere nella stessa città dove è ubicata la sede stessa, genera traffico e inquinamento, impedisce soprattutto ai più giovani di tornare al Sud e di fare progetti a medio lungo termine. Inficia anche la produttività, in quanto diminuisce la serenità del lavoratore. 

Sul punto, appare necessario un intervento legislativo che faccia chiarezza su questi temi delicati e dia effettiva tutela ai lavoratori. Lo smart non deve più essere una gentile concessione delle dirigenze, ma un diritto del lavoratore effettivamente esercitabile nei modi e nelle forme più consone. È ora che tutti i soggetti, anche i detrattori, prendano atto che lo smart working esiste e va regolato.

2. Lo smart working è la grande occasione per risolvere la questione meridionale?

In tutta Italia si parla dei giovani come la speranza per il futuro.

Al Sud, purtroppo, i giovani e la generazione che li ha preceduti sono stati la speranza mancata per la rinascita. Sono la generazione nomade, la generazione del “pacco da giù”, dello zaino e del trolley sempre pronti, dell’”università fuori”, del lavoro all’estero, al nord e/o nelle grandi città. La speranza di altri, certo, ma non del Sud che li ha cresciuti.

A differenza delle generazioni precedenti, in cui l’emigrazione coinvolgeva prevalentemente fasce della popolazione a basso tasso di scolarizzazione e di valore aggiunto produttivo, negli ultimi anni si è assistito a un flusso emigratorio radicalmente diverso, che ha coinvolto prevalentemente soggetti a elevato tasso di scolarizzazione e figure lavorative ad alto valore aggiunto, specie nelle professioni intellettuali.

Questo ha comportato non solo un ulteriore impoverimento economico del Sud, ma anche una diminuzione del livello culturale e di spinta all’innovazione. In buona sostanza è venuta meno quella “massa critica” funzionale allo sviluppo non solo di un tessuto imprenditoriale florido, ma anche di un sostrato politico di base fatto di associazionismo, di laboratori di idee e di crescita. Ciò a vantaggio delle grandi città, specie del Nord.

Uno smart working effettivo, consentirebbe a molti ragazzi di tornare a vivere al Sud, spendere lì le proprie risorse economiche e intellettuali e contribuire alla sua crescita. Sarebbe una vera e propria rinascita economica, senza aiuti a pioggia come in passato.

3. I benefici dello smart working su ambiente e qualità della vita

Lo smart dovrebbe essere voluto non solo dai ragazzi desiderosi di tornare al Sud, ma anche da tutti coloro che abitano nelle grandi città. Spesso infatti le vediamo congestionate, piene di traffico, con gravi problemi di inquinamento e un costo della vita totalmente sproporzionato agli stipendi medi. Infine, anche le aziende potrebbero trarne grande vantaggio.

Potenziare fortemente lo smart working consentirebbe alle aziende di aumentare la soddisfazione e la produttività dei lavoratori. Le imprese vedrebbero anche diminuire le proprie spese, atteso che, anche riconoscendo al lavoratore un piccolo contributo per le utenze, in ogni caso diminuirebbero i costi di gestione delle sedi, che, in città grandi, hanno parametri molto elevati in relazione al singolo mq. Il team working e il team building non ne risentirebbero: vi è molta più solidarietà tra i colleghi in smart che non quando si è in sede (dipenderà da una maggiore serenità?). Dal momento che in smart working ognuno sceglie l’ambiente più congeniale per ottenere i risultati migliori, anche la produttività e il livello di concentrazione aumentano.

Vi è poi la grande questione demografica. In Italia si fanno meno figli soprattutto perché i nostri giovani faticano a costruire una stabilità economica e familiare. Una redistribuzione di abitanti in favore del Sud e dei piccoli centri, dove le abitazioni costano meno e magari si può contare su di un welfare familiare, renderebbe la scelta di mettere al mondo dei figli  sicuramente più semplice ed economicamente sostenibile. In aggiunta, i genitori in smart riescono a conciliare meglio i tempi vita-lavoro.

Sul fronte economico, molto importante è la vocazione turistica dell’Italia. Tantissimi vogliono visitarla e molti vorrebbero viverci. Come hanno fatto alcuni Paesi (Croazia e Bahamas su tutti), potremmo sfruttare lo smart working per destagionalizzare il turismo e favorire il più possibile tutti i lavoratori esteri che vogliono trasferirsi in Italia, mantenendo la propria attuale occupazione in modalità smart working.

Redistribuire la ricchezza e il lavoro su tutto il territorio nazionale, consentendo anche di contrastare fenomeni di spopolamento in corso, da un lato consentirebbe un maggior controllo e una miglior gestione del territorio, dall’altro, consentirebbe di diminuire il rischio connesso  alla concentrazione della maggior parte della ricchezza in una sola area.

Per fare tutto questo, però, serve coraggio.

Serve il coraggio di rivedere gli schemi produttivi delle aziende e di cambiare la mentalità dei loro leader. Serve il coraggio di incentivare le imprese a modernizzarsi e a mettere al centro il benessere del lavoratore. Serve il coraggio e la forza di investire in connettività, infrastrutture (soprattutto tecnologiche) e promozione del territorio. Serve il coraggio di legiferare e prendere decisioni capaci di guardare oltre l’emergenza contingente, soprattutto.

Ma è la nostra occasione. E dobbiamo essere coraggiosi, per far sì che la speranza divenga realtà e che il nostro Paese finalmente si modernizzi e diventi più equo, vivibile e funzionale.