A cura di Carla Filannino
- Quando tutto iniziava ad andar male
A partire da febbraio, sul mio feed di Facebook ho iniziato a notare titoli di giornale che “strillavano” ancora più forte del solito. Notizie sul virus, certo, ma anche tanti commenti, previsioni, studi e analisi su tutti i cambiamenti già in corso che il virus ha fortemente accelerato: il lavoro agile, la telemedicina, la didattica a distanza… Ed eccoli i titoli che strillano che l’Italia, in tutta questa maratona di tecnologia e innovazione, è destinata ad arrivare sempre per ultima. “Non sappiamo fare lo smart working, siamo gli ultimi”. “Gli ospedali non hanno i letti, figuriamoci il wi-fi”. E così, tra lamentele e preoccupazioni, dovevamo capire come seguire i nostri studenti, come non abbandonare i nostri pazienti, come non paralizzare del tutto l’economia.
In questa fotografia (sicuramente a bassa risoluzione) dell’Italia proiettata sul mio feed di Facebook, “strillavano” anche i commenti, che erano a tratti arrabbiati, a tratti rassegnati, quasi mai positivi. In questa rassegna in cui eravamo gli ultimi in tutto, si diceva“è ovvio che sia così”, perché la colpa è dei Sindaci, poi dei Presidenti di Regione e fin su sulla scala gerarchica, per poi però riscendere: la colpa è dei ragazzi che usano lo smartphone solo per fare le storie su Instagram o dei più grandi che quello smartphone non lo sanno proprio usare. Dai 13 pollici del laptop fino alla tastiera del telefono che entra in una mano: un perimetro in ogni caso molto comodo e ristretto, in cui entrano sicuramente tante domande e altrettante risposte (urlate e confuse, per l’appunto), ma pochissime soluzioni.
- Bene, tutto questo non è vero: oltre quello schermo può esserci molto di più
Io sicuramente sono fan di tutte quelle applicazioni che possono non solo semplificarci la vita, ma renderci più vicini e offrirci più opportunità. Anzi, vi dirò di più: anche favorire la sostenibilità economica e ambientale.
Jackpot!
Tutto questo passa da quella parola di cui tanto sentiamo parlare: digitalizzazione. Molte volte questa parola ha lasciato intendere che la nostra intera esistenza possa essere facilmente riposta dentro un qualsiasi device, così che dal reale diventi virtuale.
Di nuovo: tutto questo non è vero.
Digitalizzare significa snellire i processi, renderli maggiormente accessibili, coinvolgere attivamente l’utente che sceglie di ricorrere a un sito web piuttosto che al telefono per dialogare con un call center. È un processo che deve necessariamente avere nuovi modelli e nuove categorie di riferimento. L’online (che in un domani non troppo lontano da oggi sarà on-life) non può essere la copia dell’offline, anzi la brutta copia.
Soprattutto perché quando un nuovo mezzo di informazione arriva, ridefinisce il precedente: non lo elimina.
- Parliamo di sanità
Per molti, digitalizzare la propria struttura sanitaria significa mettere tutti i documenti e le informazioni (magari in lunghissimi PDF, con timbri e firme) su un sito web. Ancora ripeto: tutto questo non è vero.
Il concetto di telemedicina nelle linee guida del Ministero (che sono qui http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2129_allegato.pdf) è descritto così:
“Per Telemedicina si intende una modalità di erogazione di servizi di assistenza sanitaria, tramite il ricorso a tecnologie innovative, in particolare alle Information and Communication Technologies (ICT), in situazioni in cui il professionista della salute e il paziente (o due professionisti) non si trovano nella stessa località.”
Il primo enunciato è molto chiaro: utilizzare le nuove tecnologie.
Ma come? Lo spiega qualche riga più in basso: “Si precisa che l’utilizzo di strumenti di Information and Communication Technology per il trattamento di informazioni sanitarie o la condivisione online di dati e/o informazioni sanitarie non costituiscono di per sé servizi di Telemedicina.”
Cosa significa? Molto semplicemente, inviare un messaggio su WhatsApp al proprio medico, non è telemedicina. Nemmeno l’email è telemedicina. Ah, neanche Skype o Zoom.
Perché? Le linee guida del ministero precisano: “La Telemedicina comporta la trasmissione sicura di informazioni e dati di carattere medico nella forma di testi, suoni, immagini o altre forme necessarie per la prevenzione, la diagnosi, il trattamento e il successivo controllo dei pazienti.”
La trasmissione sicura di informazioni (com’è evidente, i dati sanitari sono tra i più sensibili da condividere e conservare) passa per un regolamento europeo che si chiama GDPR (General Data Protection Regulation). Due anni fa, abbiamo ricevuto milioni di email che chiedevano di aggiornare il nostro consenso alle nuove privacy policy: valeva per Netflix come per la newsletter del quotidiano locale.
Cosa dice questo regolamento per quanto riguarda la sanità? Quando il medico deve chiederci il consenso? Per finalità di cura, non è necessario richiedere l’autorizzazione al trattamento dei dati, poiché il medico deve rispettare il segreto professionale. Tuttavia, il medico è tenuto a comunicare in che modo i dati saranno utilizzati in qualunque caso. Invece, sarà necessario richiedere il consenso per l’utilizzo di app mediche che raccolgono dati dei pazienti, come ad esempio gli elettrocardiografi per smartphone o le applicazioni che salvano dati sulle visite optometriche. L’utilizzo di app di telemedicina invece non richiede di ricevere il consenso da parte del paziente. Se il medico ci invita a usare WhatsApp o Facebook, deve chiederci il consenso. Il garante della privacy sottolinea infatti che il medico deve richiedere il consenso anche per app che, indipendentemente dalla propria finalità (app di messaggistica, app che permettono la scansione e il salvataggio di documenti sul telefono etc.), non tutelano i dati dell’interessato, perché è possibile ottenere l’accesso anche da soggetti diversi dai professionisti sanitari. Un esempio concreto e quotidiano è proprio WhatsApp. Infatti, è vero che i dati sono criptati in transito, ma non significa che restino privati: possono essere, ad esempio, facilmente reperibili su un telefono smarrito o rubato e soprattutto WhatsApp non richiede una password per sbloccare l’accesso.
Cos’altro ci dice il Ministero? “I servizi di Telemedicina vanno assimilati a qualunque servizio sanitario diagnostico/terapeutico. Tuttavia la prestazione in Telemedicina non sostituisce la prestazione sanitaria tradizionale nel rapporto personale medico-paziente, ma la integra per potenzialmente migliorare efficacia, efficienza e appropriatezza.”
Come detto prima, un nuovo medium ridefinisce il precedente, non lo elimina. La telemedicina entra nell’ecosistema sanitario e agevola i rapporti tra medici e pazienti, promuove la medicina diffusa ma non sostituisce i precedenti media: apparecchi di diagnostica, ricette cartacee, appuntamenti col medico etc. In una situazione di emergenza però, la telemedicina diventa fondamentale. Con una giusta visione e una adeguata attenzione, la telemedicina potrebbe contribuire a riorganizzare e rafforzare le strutture sanitarie, ma purtroppo questo non si è ancora realizzato.
E infine: “La Telemedicina deve altresì ottemperare a tutti i diritti e obblighi propri di qualsiasi atto sanitario.”
Etica e deontologia non nascono con la telemedicina, sono proprie della professione e per questo, ora che la medicina entra nel digitale, deve necessariamente tutelare la salute, ma anche i nostri dati e la nostra privacy. L’emergenza in questo caso non giustifica la fretta: occorre attenzione nella progettualità per tutelare i pazienti nel lungo periodo.
A chi possiamo chiedere aiuto?
In Italia, a marzo è partita una gara di solidarietà e molte aziende, tra cui tante start-up di sanità digitale, hanno offerto i propri servizi gratuitamente. Non siamo gli ultimi in innovazione. Tecnologia e creatività negli anni hanno dovuto lottare contro la burocrazia, la scarsa conoscenza, la mancanza di investimenti, ma nonostante tutto, sono nati grandi progetti che devono ora continuare a crescere.
E questo accadrà solo se iniziamo a capire che oltre lo schermo ci sono (e serviranno sempre di più) investimenti, fiducia e tanto tanto tanto coraggio.